Aforismi - Installazione

Critica

Aforismi - Installazione
Lawrence Durrell, nel suo noto romanzo Justine, definisce Eros come «un fossile fluido», assegnandogli un carattere ossimorico, che si manifesta in un continuo movimento fra le forme e la vita. In Eros — secondo la tradizione che risale al Simposio platonico e allo scritto Eros, contenuto nelle Enneadi plotiniane — è infatti una doppia natura, terrestre e celeste, visibile e invisibile, natura che, per analogia, rimanda all’idea di un nodo che si stringe e si scioglie fin dall’alba dei tempi. Dal che, il nodo appunto, ma anche la spirale, il vortice e gli intrecci a essi affini risultano, come si sa, simboli erotici in senso lato, nei quali il principio maschile e quello femminile si incontrano e, al tempo stesso, si separano. Durrell si è dunque limitato a riprendere tale tradizione, accentuandone però l’aspetto esistenziale e dunque tragico, come se nell’essere umano la presenza fluida di quel fossile costituisse un destino ineluttabile.
Ma, per quanto i libri siano noti e celebrati, la vitalità del miti e dei simboli non è chiusa in essi. Tale vitalità è del resto un archetipo di cui ciascun essere umano può disporre — quell’archetipo essendo parte integrante del suo essere. E così non è detto che colui il quale si rifaccia alla tradizione «erotica» suddetta si proponga di citarne le fonti storiche in modo esplicito, anzi può darsi che questi, proprio stando alla fonte del mito, ne colga in sé, nella propria anima e nella propria vita, il valore ideale, traducendolo in una particolare rappresentazione. È così legittimo accostarsi alle opere di Giovanni Scagnoli senza cercarvi la citazione di illustri precedenti ma solo una forma di espressione «erotica» attuale, che si giova anche di memorie tratte dalla storia dell’arte e magari di una tradizione religiosa meno remota di quella antica.
Osservando le plastiche fossili e le matrici spaccate prodotte da Scagnoli si avverte infatti il legame profondo con una sacralità vissuta attraverso la riforma cristiana e mariana di Eros, quella riforma che il Medio Evo gotico espresse chiamando la Vergine «vas spiritualis», «vas honorabilis», «vas insigne devotionis», e ponendola in rapporto alla Luce della quale Ella è tramite verso il mondo e le creature. Tale mi pare essere il vaso, la conchiglia, il fossile che ricorre nelle opere di Scagnoli, e a tale senso mi pare anche alluda il loro allestimento, che quasi sempre si giova di sospensioni nel vuoto, di illuminazioni auratiche, di presenze formali, che formali non sono completamente poiché alludono ad un qui che è anche un oltre o un altrove.
Non manca in questo senso di cogliersi nelle opere di Scagnoli un sentimento tragico della vita, un che di irrimediabilmente umano, che fa pensare a una personale ripresa di esperienze formali compiute da grandi, inarrivabili maestri del Novecento, come Arp e soprattutto Fautrier e Fontana, maestri non a caso in tormentato bilico fra l’arte plastica e l’immagine dipinta. C’è però, in Scagnoli, anche un’esperienza più minuta e diretta: quella del frequentatore delle pievi marchigiane ai piedi dei Monti Sibillini, con le loro cappelle oscure raccolte nell’idea della roccia. Una roccia materna e soverchiante come quella del Monte Sibilla, col suo fossile antro delle Ninfe ormai perduto. È forse questa la suggestione più forte per Scagnoli, una suggestione fluida e raccolta di terre che salgono al Sibilla come a un loro cardine celeste. Sicché non spiace immaginarcelo meditante ai piedi di quel Monte di Venere, mentre guarda in alto.

Roberto Cresti